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Emulazione, l'industria si sta accorgendo della sua importanza? O è solo un'altra vacca da mungere?

Partiamo dalle parole di Phil Spencer per parlare un po' di emulazione e dell'importanza di una memoria storica del medium videoludico.

NOTIZIA di Simone Tagliaferri   —   19/11/2021

L'industria dei videogiochi dovrebbe inginocchiarsi di fronte alla scena dell'emulazione. Dovrebbe farlo perché da anni quest'ultima si occupa di fare quello che nessun publisher o produttore hardware ha mai fatto (a parte quello che ha provato a fare Microsoft con il programma di retrocompatibilità), ossia rendere fruibili tutti i videogiochi pubblicati dalla nascita del medium fino a oggi. Non solo, perché oltre ai videogiochi ha lavorato per catalogare e rendere accessibile tutta la cultura nata e cresciuta intorno al videogioco: vecchi libri, vecchie riviste e quant'altro. Le parole di Phil Spencer sull'emulazione sono belle e importanti, ma mancano il punto, perché non considerano quanto è stato fatto finora e relegano il problema a una questione industriale. Rileggiamole:

"Credo che dovremmo imparare dal percorso creativo che ci ha portato fin qui. È una cosa che amo della musica, dei film e della televisione, e ci sono degli ottimi motivi per cui anche il gaming potrebbe seguire questa tendenza. La mia speranza, o quantomeno penso di doverla definire in questa maniera al momento, è che si possa lavorare come industria a un'emulazione legale, che consenta agli hardware moderni di far girare qualsiasi eseguibile del passato e permetta dunque di giocare con qualsiasi titolo. Credo che alla fine se riuscissimo a stabilire che tutti dovrebbero poter acquistare qualsiasi gioco, possedere qualsiasi gioco e avere la possibilità di continuare a giocarlo, ciò potrebbe rappresentare un grande punto di riferimento per l'industria."

Per ottenere ciò che Spencer vuole basterebbe che la gran parte dei vecchi giochi fossero dichiarati free, soprattutto quelli che i publisher non sfruttano più in alcun modo (sono migliaia... decine di migliaia). Basterebbe anche che sparissero operazioni come quella della raccolta dei primi quattro Darius, venduta a 40€ per sfruttare i nostalgici, ma che non hanno nessuna presa sui giocatori moderni, che vengono immediatamente respinti dal prezzo. Insomma, basterebbe lavorare sull'accessibilità e lo status di qualcosa che già esiste, facendolo uscire dalla zona grigia in cui opera da sempre, smettendola di considerare il mercato della nostalgia come formato da cretini da spremere in ogni possibile modo.

Preservare i videogiochi non significa solo permettere alle generazioni future di giocarci, ma consente la creazione di una memoria collettiva che renda il medium nella sua complessità e stratificazione, al di là delle tendenze di mercato e della nostalgia veicolata da certo marketing. Quando si parla di emulazione l'errore che molti commettono è sempre quello di pensarla in chiave individualistica, soppesandola come alternativa ai giochi moderni. Porsi la domanda se i giochi del passato fossero migliori di quelli del presente è semplicemente assurdo, perché è impossibile dare una risposta senza tenere conto del gap temporale tra i primi e i secondi. In linea teorica i giochi del passato sono qualcosa a cui l'appassionato moderno può arrivare, ma non rappresentano certo l'alternativa ai titoli più recenti. Per il vecchio giocatore, invece, i titoli del passato sono parte del suo essere nel tempo e quelli che oggi vengono visti come dei limiti per lui erano semplicemente parte del meglio della tecnologia di allora. Non ha senso confrontare due tempi differenti, perché per valutare l'esperienza del passato bisognerebbe prima cancellare quella del presente e riviverla da vergini.

Proprio i limiti tecnologici frenano la scoperta dei classici da parte di molti di quelli che non hanno vissuto certe epoche. L'errore è guardare al passato sperando che quei limiti non esistessero, quando in realtà un appassionato dovrebbe andare proprio alla loro scoperta. A quel punto le allucinanti interfacce di alcuni vecchi giochi di ruolo diventerebbero una curiosità interessante, un documento da studiare, così come il terribile scrolling di alcuni platform 2D o l'impenetrabilità di alcune avventure testuali. Conservare significa tracciare la storia del medium, che è fatta di una moltitudine di aspetti, non solo di ciò che era divertente allora e che può divertire ancora oggi, che in realtà è l'aspetto più effimero di tutta la questione.

Conservare significa riuscire a capire come sono nati i videogiochi, chi sono stati i primi sviluppatori, come sono arrivati a diventare tali e perché alcuni fenomeni, ormai dimenticati dalle masse, sono stati fondamentali per arrivare all'oggi. Conservare significa comprendere ciò che abbiamo raggiunto, ma anche ciò che abbiamo perduto. Significa guardare il mondo dei videogiochi allo specchio per capirne i mutamenti, siano essi produttivi, di pubblico, di aspettative o quant'altro. Conservare è, in ultima analisi, un modo per dare senso all'intera industria, al di là dei fenomeni del momento. Forse solo chi è capace di "conservare" nel senso più alto del termine può definirsi un vero appassionato di videogiochi, al di là delle ore passate a giocare, perché tende verso la complessità.

Per questo le parole di Spencer, che sembrano ridurre tutto al vendere vecchi giochi a chi li vuole su qualsiasi piattaforma, potrebbero fare più male che bene, perché il rischio è quello di creare un'emulazione di serie A, quella commerciale, e una di serie B, quella fatta da appassionati, con quest'ultima ancora più marginalizzata.

Parliamone è una rubrica d'opinione quotidiana che propone uno spunto di discussione attorno alla notizia del giorno, un piccolo editoriale scritto da un membro della redazione ma che non è necessariamente rappresentativo della linea editoriale di Multiplayer.it.